1. Il PiTESAI non rispetta gli obiettivi climatici UE

 

Questo Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee – PiTESAI del 2021, che dovrebbe eseguire la Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile, con cui l’Italia ha adottato e programmato l’attuazione dell’Agenda 2030 (che individua gli obiettivi energetici verso il processo di decarbonizzazione), e il nuovo Regolamento sulla Governance dell’Unione dell’energia (1999/2018/UE) che ha istituito il PNIEC, pubblicato a gennaio 2020, ma già anacronistico (perché basato sull’allora target del 40% di riduzione  delle emissioni di CO2), e la Long Term Strategy (che fornisce una visione al 2050, per realizzare un sistema energetico italiano altamente efficiente e basato sulle fonti rinnovabili trasmesso alla Commissione europea nel 2021), è in aperta contraddizione con tutti gli obiettivi di decarbonizzazione e di riduzione delle emissioni climalteranti promessi dall’Italia alla Unione Europea e imposti dall’Unione Europea stessa, dai rapporti IPCC e dagli obiettivi ONU.

 

Infatti il nuovo PiTESAI salvaguarda tutte concessioni di ricerca e coltivazioni sia di petrolio che di gas in essere (“fino a fine vita”), assicura le autorizzazioni alle richieste concessorie attualmente in moratoria, basta che si trovino nelle nuove aree idonee (ed è chiaro che lo sono), anzi, promette che le autorizzazioni d’ ora in poi, saranno “semplificate” secondo le finalità espresse dal D.L. n. 135/2018 “Decreto Semplificazioni”.  Vengono addirittura allungate le scadenze dei titoli minerari nuovi di coltivazione: oltre al primo periodo di vigenza di 20 o 30 anni sono previsti ulteriori periodi di proroga di 10 e 5 anni, cioè oltre il 2050 ! Ricordiamo che i progetti a petrolio o gas fossile nel PnRR sono stati bocciati dall’Unione Europea e perciò esclusi.

 

  1. La “finta” razionalizzazione

 

La “razionalizzazione” in termini di obiettivi climatici europei riguarda nel PiTESAI il numero di impianti in dismissione (cioè quelli improduttivi da oltre 7 anni: è chiaro che sono impianti a fine vita o esauriti) e non la quantità prodotta di idrocarburi:  nel 2020 si è registrata una produzione di olio greggio pari a 5,38 milioni di tonnellate con un incremento del 26,13 % rispetto alla produzione 2019, che, trasformato poi dalla filiera produttiva, aumenterà proporzionalmente le emissioni di CO2. E con l’introduzione della tassazione europea sulla CO2 emessa, tale aumento sarà scaricato dai buyers sulle bollette dei cittadini (si veda l’aumento del 40% delle bollette annunciato in questi giorni dal Ministro Cingolani).

 

E la “razionalizzazione” riguarderebbe anche le “zone idonee”, che rappresentano il 42.5% dell’area terrestre nazionale e l’11% dell’area marina, senza considerare le aree transfrontaliere… Ma a vedere meglio, la esigua riduzione delle aree idonee riguarda zone in cui le compagnie oil&gas hanno da tempo abbandonato le attività minerarie, con impianti non più produttivi, perciò non è prevista nessuna riduzione produttiva di tali aree.

 

  1. Mancata programmazione dell’abbandono delle fonti fossili: nessun obiettivo intermedio al 2050

 

Non c’è una programmazione di dismissioni di impianti o riduzione della produzione esistente di gas e petrolio al 2050 che ci si aspetterebbe (tutto il Piano si concentra sulla esigua riduzione del numero di impianti, ma poi ne auspica di nuovi, e ciò senza considerare l’effetto climatico della quantità di idrocarburi estratti). Non si può realizzare la “transizione ecologica” aumentando l’estrazione di petrolio negli impianti esistenti e mantenendo tutte le attività minerarie esistenti e concedendo illimitati nuovi titoli minerari “basta che rientrino in quel 42.5% del territorio o nel 11% di area marina zone idonee”.

 

Non si capisce poi l’assunto della Sintesi Non Tecnica, pag. 11, che afferma l’“(art. 11-ter della L. 12/2019) che ha previsto la redazione del PiTESAI, quale misura preordinata al perseguimento di una efficace “transizione energetica”, con l’intento di contribuire al raggiungimento degli obiettivi ambientali fissati dall’Unione Europea, mediante prevalentemente la razionalizzazione delle attività minerarie in essere (pertanto, si ritiene di poter asserire che il PITESAI non è un Piano per l’ulteriore sviluppo delle attività upstream). “. Si dimentica che il PiTESAI autorizza illimitate nuove attività nella zona idonea, per cui c’è un ulteriore sviluppo dell’attività upstream e di emissioni.

 

  1. Elusione della “formula dell’emergenza climatica” e della disciplina europea DNSH

 

Il PiTESAI porterà l’Italia verso l’ “allarme rosso per l’umanità” denunciato dall’AR6 dell’IPCC. Nessuna transizione energetica, nessuna sostenibilità. Ulteriore gas e sempre più petrolio.

 

Esso, infatti, ignora del tutto la formula dell’emergenza climatica, elaborata dalla scienza (T, Lenton et al, Climate tipping points — too risky to bet against. The growing threat of abrupt and irreversible climate changes must compel political and economic action on emissions, in Nature, 29 novembre 2018-20 aprile 2020) in ordine al “tempo rimasto” su cui parametrare le decisioni in materia energetica e, nello specifico, di sfruttamento degli idrocarburi.

 

Tale formula, com’è noto, permette di promuovere azioni prognostiche e proattive di “eco-sostenibilità” delle attività economiche, in termini non di mero “impatto”, bensì di perseguimento di obiettivi compatibili con l’obbligo di mitigazione climatica, facendo in modo, appunto, che le decisioni energetiche consentano di realizzare l’abbattimento delle emissioni climalteranti entro il “tempo rimasto” per scongiurare la destabilizzazione irreversibile del sistema climatico.

 

Tale prospettiva prognostica e proattiva è stata fatta propria dai Regolamenti UE n. 2020/952 e 2021/241, che hanno appunto codificato i metodi di qualificazione della “eco-sostenibilità” delle attività economiche affinché operino in una logica c.d. DNSH ossia di produzione esternalità negative come “danni non significativi” (Do Not Significant Harm). Ancorché pienamente in vigore tale prospettiva è del tutto pretermessa dal PiTESAI, sicché non si comprende affatto se e come le attività conseguenti ad esso risulteranno proattive per la mitigazione climatica e con produzione di esternalità negative in termini solo di “danni non significativi” (Do Not Significant Harm).

 

Tra l’altro, poiché qualsiasi danno, nella prospettiva della mitigazione climatica, è “non significativo” se non prescinde o non ignora il “tempo rimasto” per scongiurare la destabilizzazione irreversibile del sistema climatico: tempo calcolabile secondo la formula scientifica dell’emergenza climatica, ignota ai contenuti di questo PiTESAI.

 

 

  1. I tempi procedurali sbagliati del Piano: un “colpevole ritardo”?

 

Secondo il cronoprogramma del Rapporto Ambientale in oggetto, entro 90 giorni la Commissione Tecnica VIA/VAS dovrà acquisire e valutare tutta la documentazione presentata, nonché le osservazioni, obiezioni e suggerimenti pervenuti nella fase di consultazione conclusasi il 14 settembre 2021, ed esprimere il parere motivato, che costituisce presupposto per la prosecuzione del procedimento di approvazione.  Poi, secondo l’iter procedurale, il Ministro della Transizione Ecologica approva il Piano, di intesa – per la terraferma -con la Conferenza Unificata Stato – Regioni. Ma con la Legge 26 febbraio 2021, n. 21 è stato convertito in legge con modificazioni, il Decreto legge 31 dicembre 2020, n. 183. L’articolo 12-ter proroga al 30 settembre 2021 il termine per l’adozione del PiTESAI.

Considerando che il Rapporto Ambientale è stato pubblicato l’1 luglio 2021, e che i 60 giorni per la consultazione pubblica scadono il 14 settembre 2021, come farà il MITE e la CT VIA/VAS a pubblicare il PiTESAI per la sua adozione definitiva entro il 30 settembre 2021? Dichiara la Sintesi non Tecnica, pag. 14: ” Il periodo di moratoria introdotto dalla norma del PiTESAI relativamente ai permessi di ricerca, influisce quindi nel “congelare” alcune decisioni e possibilità di investimento e eventualmente spostarle dopo l’adozione del PiTESAI”: e ancora a pag. 7: “Nell’attesa dell’adozione del PiTESAI, i permessi di prospezione o di ricerca di idrocarburi, sia liquidi che gassosi, in mare e su terraferma, e anche i procedimenti amministrativi, sono stati momentaneamente sospesi (“moratoria”) fino al 30 settembre 2021, e dall’adozione del Piano saranno soggetti a verifica per determinare le aree dove queste operazioni risulteranno essere compatibili con i principi previsti dal PiTESAI. Non sono state invece sospese le attività di coltivazione in essere ed i procedimenti relativi al conferimento di nuove concessioni di coltivazione di idrocarburi nelle more dell’adozione del Piano.”.

  • La mancata approvazione del PiTESAI entro il 30 settembre 2021 potrebbe fare ripartire dunque quei 40 permessi di ricerca di idrocarburi bloccati dalla moratoria del 2019, visto il precedente del 9 aprile 2021, primo atto del nuovo Ministero, di firmare le VIA ai rinnovidiconcessioni, progetti di messa in produzione di pozzi e di perforazione, sia su piattaforma sia onshore,  consentendo ai procedimenti amministrativi di andare avanti. Comprese anche le concessioni di petrolio, escluse invece da questo Piano.
  • Perciò chiediamo innanzitutto al MITE di prorogare la moratoria del 2019 alle concessioni fino almeno all’approvazione del PiTESAI, visto che tale moratoria era stata deliberata dal MATTM proprio per riconsiderare i permessi di ricerca e coltivazione nuovi di idrocarburi, e proprio per adeguare tale normativa alle nuove politiche europee, e procedere così speditamente verso l’opzione zero del 2050, e cioè lo stop alle trivellazioni. Nel rispetto di uno dei principi cardine della transizione ecologica: il rapido abbandono dei combustibili fossili, responsabili di emissioni nocive e climalteranti. 

 

  1. I criteri socio-economici: l’analisi costi – benefici (CBA) “parziale”

 

Secondo il Rapporto Ambientale, a pag. 73 e segg., il Piano segue un approccio metodologico basato “sull’analisi costi-benefici (CBA), quale strumento di supporto alle decisioni, al fine di individuare le concessioni che a scadenza del titolo minerario converrebbe prorogare in virtù del loro impatto ambientale e socio-economico sul territorio, oppure dichiarare conclusa l’attività estrattiva e procedere con la dismissione degli impianti ed il ripristino ambientale dei luoghi.

Gli impatti negativi considerati dalla metodologia sono quelli dovuti all’eventuale mancata estrazione di idrocarburi, mentre per gli impatti positivi si valutano quelli generati dall’esecuzione delle attività di decommissioning, dalla mancata emissione in atmosfera di sostanze inquinanti, dal ripristino dei servizi ecosistemici e dalla variazione del valore del paesaggio. Gli impatti vengono valorizzati in euro ed attualizzati.”.

Per assurdo, tale analisi, usuale in ambito economico e sociale, viene invertita con una “doppia negazione”: con la non estrazione, si hanno impatti negativi, che in realtà sono il non introito di PIL e di salari, cioè vantaggi per Stato e lavoratori; mentre l’impatto positivo riguarda i vantaggi in termini di emissioni, ecosistema e paesaggio.

 

  • E tale analisi non è svolta sulla base di impatti positivi o negativi riguardo gli effetti globali della produzione estrattiva: sull’inquinamento dell’aria e delle fonti idriche, sulla salute dei cittadini, sulle emissioni cliamalteranti di metano connessi al methane leakage (riconosciuto dalla Commissione Europea e condannato dall’AR6 dell’IPCC) e alle emissioni di CO2 derivanti poi dall’uso industriale di petrolio e gas, per lo più combusti per la produzione di energia o nel trasporto, all’uso di suolo (land grabbing)… Ma si considerano solo gli effetti ambientali e socio economici negativi derivanti dalla mancata autorizzazione degli impianti o della loro dismissione: effetti sul PIL delle mancate royalties ed esigui effetti occupazionali. Si monetarizzano in modo non scientifico i “benefici” del decommissioning, come la mancata emissione in atmosfera di sostanze inquinanti, dal ripristino dei servizi ecosistemici e dalla variazione del valore del paesaggio.

E la conclusione scontata dell’analisi costi benefici sul decomissioning non può che essere quella di sfruttare ogni goccia di petrolio e molecola di gas esistente sul territorio, perché sono vantaggi subito misurabili “per lo Stato e per le comunità locali”, quando invece quasi tutte le osservazioni presentate dalle S.C.A. nella fase preliminare del mese di aprile 2021 criticano aspramente questo approccio prettamente economicistico e auspicano di dare maggiore rilevanza agli aspetti sociali, ambientali e del territorio e non a payback, cash flow e ciclo di vita di appraisal.

 

  1. Pochi passi positivi: basta nuove concessioni per estrazioni di petrolio ed eliminazione delle assurde “alternative” col confronto vincente dell’estrattivismo rispetto alle fonti rinnovabili, presenti nella prima bozza della VAS.

 

 

OGGETTO DELLE OSSERVAZIONI

nello specifico:

Aspetti

  1. Aspetti di carattere generale (es. struttura e contenuti della documentazione, finalità, aspetti procedurali)
  • Il Pitesai non tiene conto dell’allarme dell’ultimo rapporto AR6 dell’IPCC sulle emissioni di metano e methane leakage, concedendo nuove autorizzazioni addirittura “semplificate” con scadenze di 20-30 anni, estendibili per altri 10 anni, cioè oltre il 2050.
  • Il Pitesai non è allineato alla politiche UE sulla riduzione emissioni CO2 entro il 2030: La strategia della Commissione Europea sottolinea con decisione che i combustibili fossili, compreso il gas, non fanno parte del futuro energetico dell’Ue e che le attività ad esse legate vanno ridotte, lasciando spazio a fonti energetiche compatibili con gli obiettivi climatici e con il Green Deal europeo. L’Italia, con la Strategia Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile (detta SNSvS) approvata dal CIPE il 22 dicembre 2017, con Delibera n. 108/2017 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 15 maggio 2018, ha adottato e programmato l’attuazione dell’Agenda 2030, e cioè “garantire entro il 2030 accesso a servizi energetici che siano convenienti, affidabili e moderni;” che non sono certo rappresentate dalle trivelle di petrolio e gas.
  • Il Pitesai, perciò, non è allineato al target nazionale di riduzione delle emissioni CO2 per il 2030 e al target zero emission del 2050, concedendo “nuove” concessioni sul gas incrementali rispetto alle 138 piattaforme estrattive offshore italiane, e ai 687 pozzi sparsi per il territorio nazionale.
  • Manca una politica globale e una strategia nazionale per l’emergenza climatica. Ogni Piano finora deciso dal Governo a livello nazionale (dall’anacronistico PNIEC alla ambigua Strategia Nazionale sull’Idrogeno) sembra prolungare lo status quo, invece che pianificare una fuoriuscita dai combustibili fossili.
  • Manca una timeline con obiettivi programmati intermedi all’obiettivo del 2050.
  • Il PiTESAI pianifica solo le nuove concessioni e nulla pianifica sulla dismissione delle concessioni esistenti, non in linea con la zero carbon target del 2050, e come debbano essere gestiti gli impianti dismessi (si da per scontata la bonifica degli impianti dismessi e il recupero ambientale).
  • Per quanto riguarda il CCS (Carbon Capture and Storage), il RA a pag. 115 cita che “sono in sperimentazione, in alcune parti del mondo (non in Italia ove sono pervenute solo poche proposte di progetti al vaglio dell’Amministrazione), sistemi di stoccaggio in sotterraneo di CO2.”, dimenticandosi del CCS di ENI a Ravenna inserito nella prima bozza del PnRR, poi bocciato dall’Unione Europea. E si parla addirittura di “stoccaggio geologico dell’idrogeno, è una delle opzioni di riutilizzo delle infrastrutture minerarie attualmente studiate, alla luce del ruolo strategico che potrà ricoprire l’H2 nell’ambito della transizione energetica e nel raggiungimento degli obiettivi del PNIEC, su cui tuttavia non sono ancora stati ultimati tutti gli studi necessari in Italia e all’estero per l’avvio di casi studio”. Ricordiamo al MITE il “progetto di eccellenza” italiano: CCS Brindisi – Cortemaggiore ENI – ENEL del 2011, che doveva separare una piccola quantità di CO2 dai fumi della centrale a carbone Enel di Brindisi, finanziato dal pacchetto Clima Energia 20 20 20 nel 2008 con 100 milioni e mai entrato in funzione, tanto che nel 2018, la Corte dei Conti Europea nella relazione n. 24/2018 ha certificato il fallimento della tecnologia CCS dopo aver esaminato i risultati ottenuti con il programma EEPR.
  • Il Pitesai è presentato prima della Cop26 che dovrebbe decidere sulle nuove politiche energetiche europee.
  • “L’odierna disciplina giuridica della materia è l’esito del sovrapporsi nel tempo di numerose normative, basate anche sul presupposto che i giacimenti di idrocarburi rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato o delle Regioni ex art. 826 del Codice civile. I principi fondamentali della disciplina mineraria sono rimasti in gran parte quelli di cui alle leggi di base del 1927 (R.D. 29 luglio 1927, n. 1443) e degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso.” (PiTESAI, pag. 5): le esigenze e le procedure sono profondamente cambiate negli ultimi 100 anni e siamo in emergenza climatica e le concessioni di coltivazione hanno durata di 20 – 30 anni (art. 13 D.Lgs.625/1996) con ulteriore proroga di 10 e 5 anni, arrivando così al 2050, termine per il zero carbon target.
  1. Aspetti programmatici (coerenza tra piano/programma/progetto e gli atti di pianificazione/programmazione territoriale/settoriale)
  • Il Pitesai non è inserito in una politica generale italiana di uscita dai combustibili fossili e la zero emission per il 2050
  • Il Pitesai non contiene una timeline di programmazione per raggiungere l’uscita dai combustibili fossili entro il 2050
  • Il Pitesai doveva essere una legge, che stabilisca un chiaro termine ultimo di validità delle concessioni per l’estrazione degli idrocarburi e che preveda, di conseguenza, un fermo delle autorizzazioni per le attività di ricerca e prospezione degli idrocarburi”. Una legge analoga a quelle approvate in Francia e, recentemente in Danimarca.
  • Il Pitesai non è “uno strumento di pianificazione generale»
  • Il Pitesai non «individua le aree dove sarà potenzialmente possibile svolgere o continuare a svolgere le attività di ricerca, prospezione e coltivazione degli idrocarburi», in quanto individua circa metà del territorio nazionale, onshore e una parte significativa offshore, per tali attività
  • Il Pitesai individua tali zone generiche, ‘area idonea nella situazione post operam’, senza considerare le aree adiacenti a ‘zone protette’ per la salvaguardia della salvaguardia di flora e fauna e della biodiversità, come per esempio il decreto n°116 del 29 marzo 2021, in cui il ministero ha dato parere favorevole all’avvio delle ricerche di metano nell’Alto Adriatico da parte di una multinazionale australiana, al confine con un’area marina protetta, Sito di Importanza Comunitaria (SIC) e considerato che dal 2010 lo sfruttamento di idrocarburi è vietato entro le 12 miglia dal confine con aree marine protette, per cui le amministrazioni locali riunite nel Parco regionale di Porto Viro, hanno presentato un ricorso al TAR contro il progetto e numerose associazione ambientaliste hanno fatto un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
  • Il Pitesai pianifica soltanto le nuove autorizzazioni di attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale, senza prevedere la graduale dismissione delle autorizzazioni in essere secondo il zero carbon target per il 2050
  • Il Pitesai non regolamenta una pianificazione per le autorizzazioni di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale in essere, per adeguarsi ai target della riduzione del 55% della emissioni globali al 2030 e del zero carbon target per il 2050.
  • Il Pitesai prevede nelle sue considerazione dell’Allegato 1 solo le richieste di autorizzazioni sul territorio italiano, fatte essenzialmente da ENI, senza prevedere limitazioni o regole per tantissime autorizzazioni offshore richieste da società straniere anche in acque territoriali italiane
  • Il Pitesai non considera in realtà l’obiettivo di «valorizzare fortemente la sostenibilità ambientale, sociale ed economica» in molte aree, come la costa adriatica, in particolare la costa ravennate, e non si capisce come “valorizza” con nuovi permessi di attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio tale obiettivo.
  • Il Pitesai considera in maniera parziale, a favore di un unico player nazionale, i costi della eventuale dismissione delle autorizzazioni
  • Il Pitesai è anacronistico in tale analisi costi-benefici, in quanto:

– Le nuove autorizzazioni aumentano solo in parte il PIL nazionale e in favore solo dell’ENI che è è solo in parte partecipata dallo Stato, ma è quotata in borsa e persegue solo in parte gli interessi nazionali, ma evidentemente vuole assicurare gli interessi di profitto dei suoi azionisti privati.

– Per la “sicurezza degli approvvigionamenti nazionali di fonti di energia” l’Italia è sicuramente coperta dalla diversificazioni degli entry point di gas, considerando anche l’ingresso di gas da Melendugno del gasdotto TAP dall’1 gennaio 2021, portando cosi  a 5 i gasdotti in entrata, oltre ai rigassificatori funzionanti.

– “le politiche di decarbonizzazione devono essere rivolte alla riduzione delle emissioni derivanti dalla produzione e consumo di energia, e quindi, nel caso degli idrocarburi liquidi e gassosi, alla riduzione del loro consumo primario, piuttosto che alla riduzione della loro produzione sul territorio nazionale, essendo evidente che gli idrocarburi non prodotti in Italia verrebbero, a consumo costante, importati dall’estero “ (Pitesai, pag. 69): la riduzione del loro consumo primario è sinonimo della riduzione della loro produzione.

– Il settore delle trivellazioni porta poco incremento dell’occupazione sui territori nel medio-lungo termine, e per lo più specializzata, perciò rappresentano una opportunità trascurabile in termine di sviluppo e incremento dell’occupazione, soprattutto  per l’occupazione marginale di giovani donne, disoccupati, come auspicato dagli obiettivi del PnRR.

– Le eventuali dismissioni non rappresentano criticità in termine dell’occupazione attuale del settore, in quanto si tratta di personale tecnico occupato di alto livello, che può essere dislocato in altri ambiti specializzati delle aziende.

– “circa il 9% delle concessioni attive fornisce oltre l’80% della produzione nazionale di gas” (PiTESAI, pag. 29) sembra voler giustificare la continua ricerca del gas, quando l’AR6 dell’IPCC condanna il metano come principale gas climalterante, anche per il methane leakage, le perdite di gas durante tutta la filiera produttiva, dall’estrazione al trasporto.

– “la finalità primaria della razionalizzazione prevista dal Piano dell’intero settore dell’upstream italiano, evitando anche l’eccessivo allungamento dei tempi amministrativi connessi e conseguenti a tali attività.” (PiTESAI, pag.30): cioè si chiede addirittura un iter autorizzativo più veloce a sfavore di istituzioni locali, territoriali e di cittadini, limitandone i poteri di prescrizioni.

  • Il Pitesai considera nell’analisi costi-benefici (CBA) solo gli impatti negativi economici, monetari della dismissione o mancata realizzazione di impianti, mentre non considera i benefici per l’ambiente, il clima, la salute pubblica, gli effetti dell’inquinamento provocato dall’estrazione, tutti fattori difficilmente monetarizzabili e perciò confrontabili con gli impatti negativi

 

  1. Aspetti progettuali (proposte progettuali o proposte di azioni del Piano/Programma in funzione delle probabili ricadute ambientali)

la proroga al 30 settembre 2021, secondo la Legge 26 febbraio 2021, n. 21, del termine per l’adozione del Piano PiTESAI, con le numerose osservazioni sulla presente consultazione pubblica scadente due settimane prima, mette in seria discussione l’analisi delle osservazioni pervenute e la loro considerazione,   visto che entro questi 16 giorni il MITE dovrà anche fare la Conferenza Stato Regioni e pubblicare la versione definitiva del Piano, considerando che molte sono le criticità già espresse da Regioni, Comuni e istituzioni pubbliche nella prima consultazione pubblica C.A.S. di aprile 2021.

– l’art. 11 ter prevede che “Precisamente, fino all’adozione del Piano i procedimenti amministrativi per il conferimento di nuovi permessi di prospezione e di ricerca di idrocarburi sono sospesi, così come sono sospesi i permessi già in essere, sia per aree in terraferma che in mare, con conseguente interruzione delle relative attività. La sospensione non riguarda le istanze di concessione di coltivazione già presentate né le attività di coltivazione in essere;” e proprio la mancata adozione del Pitesai potrebbe fare ripartire quei 40 permessi di ricerca di idrocarburi bloccati dalla moratoria del 2019, visto il precedente del 9 aprile 2021, primo atto del nuovo Ministero, di firmare le VIA ai rinnovi di concessioni, progetti di messa in produzione di pozzi e di perforazione, sia su piattaforma sia onshore,  consentendo ai procedimenti amministrativi di andare avanti.

– Come regolamenta anche l’ultimo Bollettino ufficiale degli idrocarburi e delle georisorse  pubblicato il 31 marzo scorso, che è il meccanismo delle proroghe automatiche, proroghe hanno decorrenza retroattiva, cioè vanno a prorogare oggi titoli già scaduti anche nel 2017.

– Una situazione più articolata è quella degli impianti rientranti nella normativa “Seveso Ter” e dunque considerati a rischio di incidente rilevante, come nel caso delle richieste ENI in Alto Adriatico, concentrati sulla fascia costiera di Ravenna. In questo caso le verifiche e le eventuali prescrizioni in ordine alla distanza degli impianti dai luoghi provengono dal Comitato Tecnico Regionale (CTR) composto da organi tecnici fra cui Regione, Vigili del Fuoco, ARPA, Comuni e Sezioni UNMIG competenti. Così le zone marine dalla A alla G dovrebbero essere tutte riformulate e delimitate, considerando che sono attigue a ecosistemi vitali, come il Delta del Po e il santuario dei delfini in Sardegna. La situazione è ancora peggiorata con l’istituzione della ZEE che permette attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi anche entro le 200 miglia in mare.

-Il Pitesai, nell’analisi Costi-Benefici considera solo i costi economici della dismissione di impianti e manca di una visione globale sull’intera filiera produttiva di petrolio e gas fino al consumatore finale, che dovrebbe essere il vero destinatario della pianificazione PiTESAI.

 

  1. Aspetti ambientali
  • La mappa delle aree idonee del Pitesai copre circa metà delle terre e del mare italiano (detta piattaforma continentale, a cui bisogna aggiungere la zona ZEE entro le 200 miglia marine). Ma gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050 (come riportate inutilmente a p.14 del PiTESAI), in particolare l’obiettivo d’ampliare almeno al 30% della superficie a mare la rete delle aree marine protette (e almeno al 10% quelle protette in modo rigoroso) stabilito dalla nuova Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030 e dei traguardi ambientali previsti dalla Direttiva quadro 2008/56/CE sulla strategia per l’ambiente marino, doveva almeno stabilire un criterio di “riperimetrazione” delle attuali zone marine per una superficie a mare di almeno il 30%, invece che confermarle. E tale determinazione doveva essere definita dal PiTESAI, e non con specifico Decreto del Ministro della Transizione Ecologica a seguito della adozione del PiTESAI.
  • Alla luce di quanto sintetizzato in precedenza sulla totale ignoranza, nel PiTESAI, della formula dell’emergenza climatica e della valutazione di “eco-sostenibilità” nell’ottica DNSH, si può concludere che il Piano sia palesemente antiscientifico, in quanto in contrasto con la “migliore scienza” che, in base all’Accordo di Parigi e all’art. 191 TFUE, deve orientare il decisore per far «accrescere» le azioni di mitigazione climatica (art. 6 n.1 Accordo di Parigi) e per il «miglioramento della qualità dell’ambiente» (art. 191 TFUE).