Premessa necessaria: vincolo giuridico dell’Italia agli scenari sintetizzati dall’IPCC e conseguenze in base all’art. 9 della Costituzione

 

Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (d’ora in poi PNACC) non può non tener conto di quanto dall’Italia stesso accettato sugli scenari emersi dal “Synthesis Report 2023” (d’ora in avanti SYR 2023) dell’IPCC.

Infatti, l’Italia ha aderito al (e non contestato il) SYR 2023.

Questo dato assume valore giuridico ai sensi dell’art. 7 della Convenzione di Vienna sui Trattati, in forza del quale sono considerati rappresentanti dello Stato al quale appartengono, in virtù delle loro funzioni e senza dover presentare i pieni poteri, i rappresentanti accreditati degli Stati presso un’organizzazione internazionale o uno dei suoi organi (quale è appunto l’IPCC).

Significa che lo Stato è a conoscenza e non contesta le conseguenze del fallimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015 sul fronte delle conseguenze dannose irreversibili non solo per gli ecosistemi ma anche per la persona umana, come sintetizzabile dalle seguenti immagini tratte appunto dall’IPCC.

Ciononostante, il PNACC risulta sostanzialmente ancorato al Rapporto di valutazione dell’IPCC n. 5 (AR5), ignorando dunque le acquisizioni ulteriori sulle interdipendenze tra mitigazione climatica e adattamento.

Quelle nuove acquisizioni ci consegnano uno scenario di emergenza climatica, dalla letteratura scientifica definito “Climate Endgame” (cfr. L. Kemp et al., Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios), ossia ultimativo della effettiva possibilità di adattarsi efficacemente e durevolmente alle dinamiche del cambiamento climatico in caso di superamento della soglia di 1,5°C di temperatura media globale rispetto ai livelli preindustriali.

Del resto, è stato osservato in dottrina (cfr. M. Cunha Verciano, Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU) che lo Stato italiano, aderendo alle acquisizioni dell’IPCC e dichiarando nel PNACC quali sono le conseguenze peggiorative della mancata mitigazione climatica, dimostra di avere coscienza della prevedibilità e prevenibilità dei danni conseguenti all’emergenza climatica in atto, assumendone la probabilità di occorrenza sia statistica che logica rispetto alla soglia di pericolo dell’aumento della temperatura media di 1,5°C, e così riconoscendosi nella demarcazione, tipica dell’ordinamento giuridico italiano sulla responsabilità da danno prevedibile, tra logica “pascaliana”, di calcolo, e “baconiana”, di induzione.

Questo significa che, per prevenire nella migliore efficacia i danni prefigurati dal PNACC e così garantire effettività durevole all’adattamento climatico, ogni pianificazione deve misurarsi con l’efficacia delle misure di mitigazione programmate.

È sempre la dottrina a farlo presente. Così si legge nel testo sopra citato (M. Cunha Verciano, Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU):

«Il PNACC, infatti, resta comunque uno strumento di prevenzione secondaria rispetto alla prevenzione primaria dei danni da cambiamento climatico, garantita esclusivamente dalla mitigazione climatica. Senza mitigazione, non ci può essere adattamento, per consequenzialità termodinamica ma anche per vincolatività giuridica, essendo, tale sequenza, sancita dalla fonti del diritto, a partire dalla Convenzione Quadro dell’ONU del 1992 (l’UNFCCC). Lo stesso dicasi in caso di mitigazione insufficiente, perché incapace, ai sensi dell’art. 3 n. 3 dell’UNFCCC, di intervenire sulle cause del cambiamento climatico (presupposto della mitigazione) e non solo sui suoi effetti (presupposto dell’adattamento). In una parola, non si può leggere il PNACC prescindendo dal principio “speciale” di precauzione climatica (sulla “specialità” della precauzione climatica si v. J. Wiener, Precaution and Climate Change, 2016): principio che contiene in sé anche i doveri di prevenzione e correzione alla fonte, fondati sul criterio n. 8 della Dichiarazione di Rio del 1992: «Al fine di pervenire ad uno sviluppo sostenibile e ad una qualità di vita migliore per tutti i popoli, gli Stati dovranno ridurre ed eliminare i modi di produzione e consumo non sostenibili» (sulla originaria coesistenza di precauzione, prevenzione e correzione alla fonte, si v. F. De Leonardis, Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, 2011).Ma come si fa a verificare se l’adattamento climatico sia stato impostato secondo la precauzione climatica?È sempre l’UNFCCC a fornire il quadro di conformità della risposta: gli Stati «shouldprotect the climate system for the benefit of present and future generations of humankind, on the basis of equity and in accordance with their common butdifferentiatedresponsibilities and respectivecapabilities» (art. 3 n. 1).
Ora, nel PNACC non c’è alcuna traccia di utilizzo dell’Equity declinata dalla Convenzione quadro. Ma non solo. Lo stesso ISPRA riconosce l’inesistenza di linee guida per definire tale “Equity” e quantificare le “differentiatedresponsibilities” dell’Italia (si v. il 
Sistema Informativo Nazionale Ambientale). Ne deriva che l’adattamento climatico a beneficio della presente e delle future generazioni è perseguito senza un meccanismo conoscibile e verificabile di metodo di quantificazione di tutte le cause da cui dipende l’efficacia stessa di quell’adattamento» (sottolineature nostre).

Questa lacuna assume rilievo giuridico, nei termini evidenziato dal caso “Friends of the Irish Environment v. Irlanda”del 2020 (Friends of the Irish Environment CLG v The Government of Ireland (Irish Climate Case): Supreme Courtof Ireland Appeal No. 2015/19.), dove si è fatto presente che i piani climatici di uno Stato, quando vaghi, astratti e poco puntuali, consumano una condotta illecita in termini di Tort (ossia, nella traduzione della categoria del Tort nel contesto italiano, in termini di violazione del neminem laedere), in quanto non in grado di prevedere come lo Stato intenda garantire il rispetto della soglia di pericolo, necessaria a perseguire le peggiori conseguenze dell’emergenza climatica.

Nel contesto italiano, questa condotta omissiva assume rilievo nei termini anche degli artt. 9 e 41 della Costituzione, cosi come riformati nel 2022, espressivi di un dovere qualificato di tutela dell’ambiente in tutte le sue componenti e in funzione di scongiurare che anche l’iniziativa privata si svolga in danno della salute e dell’ambiente (cfr., per una sintesi, I. Bruno, Il dovere ambientale “di fare” dopo la riforma costituzionale).

E assume rilievo anche nei termini dell’art. 2051 Cod. civ. (in tal senso, ancora M. Cunha Verciano, Il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici tra Costituzione e CEDU).

 

 

 

 

 

 

 

Osservazioni di ordine politico, economico ed ambientale.

 

  1. Il mancato collegamento nel PNAAC tra obiettivi di adattamento e politiche di lotta ai cambiamenti climatici

 

Nel PNAAC  manca una visione globale del problema dei cambiamenti climatici e c’è una contraddizione tra gli obiettivi di resilienza dichiarati nel PNAAC e le politiche energetiche e di riduzione delle emissioni del Ministero.

A pag. 4 il Piano riconosce subito che “I cambiamenti climatici rappresentano e rappresenteranno

in futuro una delle sfide più rilevanti da affrontare a livello globale ed anche nel territorio italiano.”, ma poi non indica le cause antropiche dei cambiamenti climatici, come definite dal “Synthesis Report 2023” dell’IPCC, cioè il ruolo determinante delle emissioni di CO2 e metano nel riscaldamento globale.

Così sempre a pag. 4, il PNAAC evidenzia che nella “COP-21 del 2015 è stato presentato l’Accordo di Parigi che, all’art. 7, fissa l’obiettivo globale dell’adattamento” invece di sottolineare che la COP-21 fissa l’aumento massimo delle temperatura a 1.5° C entro il 2030.

Così a pag. 5 la “cd. Legge europea sul clima (Reg. (UE) 2021/1119” e la politica “fit for 55” fissano l’obiettivo della riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030.

E il “Green Deal europeo” NON soltantomira a realizzare la trasformazione dell’Europa in un’Unione resiliente ai cambiamenti climatici entro il 2050“, ma lancia l’obiettivo del “zero net carbon” in termini di emissioni.

E il “Ministero della Transizione Ecologica (ora Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica – MASE) ha recepito gli indirizzi contenuti nei citati atti di fonte internazionale e dell’UE e, coerentemente con essi, oltreché con quanto previsto dalla SNAC, ha intrapreso   rilevanti iniziative sul tema dell’adattamento“: ma proprio dalla incompatibilità tra queste “rilevanti iniziative sul tema dell’adattamento” intrapese dal MASE e gli atti normativi prodotti dallo stesso MASE in termine di autorizzazioni di nuove opere fossili climalteranti, addirittura in regime di semplificazione delle procedure senza nessuna considerazione per gli effetti dannosi a livello di cambiamento climatico delle nuove opere fossili autorizzate, che nasce la principale contraddizione del PNAAC.

 

Mentre con la ripresa post-covid e l’aumento inflazionistico dei prezzi del gas l’Italia dichiarava una “emergenza energetica”, in nome della quale bisognava aumentare le importazioni da gasdotti esistenti, realizzarne di nuovi, impiantare nuovi rigassificatori di GNL (lo shale gas ambientalmente dannoso, la cui estrazione è vietata in Italia) e autorizzando le vecchie centrali a carbone inquinanti

e climalteranti (in parziale dismissione e verso la definitiva chiusura nel 2025) a produrre invece alla massimizzazione dell’uso (art. 5 bis DL 14/2022) prorogato qualche giorno fa con deroghe ai limiti di emissioni senza motivi fino al 30 settembre 2023.

La politica energetica e ambientale italiana poi, con la guerra in Ucraina, si è ancora più incentrata sull’utilizzo dei combustibili fossili,  questa volta per “affrancarsi dal gas russo”.

E negli ultimi mesi il Governo Italiano ha definitivamente dichiarato il proprio obiettivo in termini di politiche ambientali ed energetiche: l’Italia deve diventare “hub del gas europeo”.

Dalla situazione di emergenza del gas l’Italia ora deve diventare esportatore di gas (vedi dichiarazione Pichetto in https://www.mase.gov.it/comunicati/energia-pichetto-possiamo-essere-hub-del-gas-ue ).

Come primo atto il “Ministero della Transizione Ecologica” diventa un più contraddittorio “Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica” affiancando due termini, Ambiente e Sicurezza Energetica, che mal si conciliano in relazione ai cambiamenti climatici.

L’aumento di importazioni di metano via gasdotti e di GNL via nave con motivazioni solo affaristiche, sono in netto contrasto con le affermate politiche di decarbonizzazione e di transizione ecologica del MASE: e mentre gli altri paesi europei tendono alla graduale eliminazione delle fonti fossili, la transizione ecologica appunto, l’Italia vuole addirittura esportare i combustibili fossili, non si sa poi verso chi.

E il MASE, tramite il PNAAC, sembra volerci “mettere una pezza” alla sua insensata politica fossile climalterante, proponendo un “piano di adattamento” giustificativo come richiesto dall’Europa.

 

L’adattamento ai cambiamenti climatici deve partire da reali politiche di decarbonizzazione immediata e dall’uscita dai fossili e non essere una giustificazione di “green washing” alle scellerate e affaristiche politiche energetiche del paese.

Addirittura ARERA, nella “Deliberazione n.468/2018/R/gas  nell’ambito del Piano e di Sviluppo della Rete di Trasporto SNAM Linea Adriatica, parla di “Global Ambition e Late Transition“, ammettendo già il fallimento degli obiettivi “fit for 55 e zero net carbon per il 2050”.

Tutto ciò si evidenzia ancor più nel mancato aggiornamento del PNIEC, lo strumento con cui gli Stati Membri identificano politiche e misure per il raggiungimento degli obiettivi energia e clima al 2030, cioè il quadro di misure di attuazione nazionale degli impegni europei di riduzione delle emissioni, presi nell’ambito dell’Accordo di Parigi2. Il PNIEC è ancora fermo al 2019, in una mutata situazione energetica del paese.

 

  1. Il PNAAC non riconosce in modo chiaro le cause antropiche dei cambiamenti climatici

 

Da tutte le sezioni del PNAAC il cambiamento climatico emerge come una fatalità spesso catastrofica, e non è messo mai in relazione diretta con le attività umane, ne nella descrizione del Piano, ne tantomeno nelle azioni da compiere per l’adattamento.

A pag. 5 si legge: “L’obiettivo principale del PNACC è fornire un quadro di indirizzo nazionale per l’implementazione di azioni finalizzate a ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici“. Ma se le cause del climate change sono soprattutto antropiche, cioè legate alle attività dell’uomo, e in primis le attività estrattive e poi di combustione dei fossili, come sottolineato scientificamente da ogni “Synthesis Report” dell’IPCC, le azioni dell’adattamento dovrebbero essere finalizzate innanzitutto alla riduzione di tali attività o, meglio, all’azzeramento di emissioni, come formulato dai piani climatici della UE e ratificati dal nostro Governo.

L’assurdo è evidenziato nel PNAAC a pag. 80: “La principale relazione tra cambiamenti climatici ed energia è inerente all’incremento della domanda di raffrescamento che determina un aumento dei consumi di energia elettrica nel periodo estivo” e ancora peggio nella pagina seguente: “Un ulteriore impatto sulla trasmissione e distribuzione elettrica dovuto all’aumento della temperatura è il previsto incremento della resistenza dei cavi“, come se la relazione tra cambiamenti climatici e produzione di energia fosse tutta nella resistenza dei cavi elettrici.

 

  1. Il PNAAC sottovaluta la relazione tra cambiamenti climatici ed energia in termini di adattamento a fonti energetiche alternative.

 

La principale relazione tra cambiamenti climatici ed energia è inerente all’incremento della domanda di raffrescamento che determina un aumento dei consumi di energia elettrica nel periodo estivo” (PNAAC pag. 80): è proprio la produzione di energia mediante estrazione e combustione di fonti fossili che ha causato i cambiamenti climatici e il surriscaldamento terrestre con l’effetto serra. Forse il surriscaldamento terrestre è stato preso troppo alla parola dai tecnici del MASE, parlando di problema del raffrescamento.

Ma adattamento ai cambiamenti climatici vuol dire anche non usare più fonti fossili per produrre energia e dover passare a mix energetici sostenibili e disponibili per tutti, con piani di adattamento  tra i diversi livelli di governo del territorio e i diversi settori di intervento, di cui non si parla nel PNAAC.

In tutto il PNAAC non si affronta mai il problema della transizione ecologica e decarbonizzazione e l’adattamento a nuove fonti energetiche sostenibili e il loro impatto economico, produttivo, sociale e di vita quotidiana.

 

  1. Misure e azioni di adattamento soft

 

A pag. 83: le misure ed azioni soft sono veramente “soft” e sembrano non considerare l’ultimo Synthesis Report 2023 dell’IPCC, (anche se il PNAAC risulta revisionato il 16 febbraio 2023) che richiede ai governi e istituzioni internazionali azioni sempre più drastiche per la grave situazione climatica.

Invece, in continuità con la sopra denunciata inerzia climatica del MASE, se non addirittura comportamento aggravante rispetto ai cambiamenti climatici, il PNAAC prevede blande soluzioni soft burocratiche, come l’istituzione di un osservatorio, una segreteria, e poi il “mainstreaming che definisca le modalità, programmi e piani intersettoriali valutati”. Azioni veramente soft: tanta burocrazia e niente di attuativo a brevissimo termine.

 

 

  1. Fonti di finanziamento delle azioni di adattamento

 

A pag. 95: “In questo quadro, il Consiglio dell’Unione Europea, con l’approvazione nel 2021 della nuova Strategia per l’adattamento ai cambiamenti  climatici ha sottolineato l’importante ruolo svolto dal rafforzamento della resilienza ai cambiamenti climatici nella ripresa economica dalla pandemia di COVID-19. L’UE ha fissato un obiettivo di spesa pari ad almeno il 30% a favore dell’azione per il clima, compreso l’adattamento, nell’ambito del quadro finanziario pluriennale per il periodo 2021-2027 e ad almeno il 37% nell’ambito del dispositivo per la ripresa e la resilienza.”

E intanto proprio parte di quei finanziamenti europei vengono dirottati ancora in nuove opere fossili, come la parte di RePowerEU spesa nel completamento della Rete Adriatica SNAM e gasdotto Foligno Sulmona. O il finanziamento al fossile sia in Italia che all’estero.

Come i fondi SACE, attiva nell’export credit, nell’assicurazione dei crediti, nella protezione degli investimenti, nelle garanzie finanziarie, nelle cauzioni e nel factoring dei maggiori investimenti fossili di ENI e SNAM all’estero.

E mai sono stati trasformati i SAD (Sussidi Ambientali Dannosi), articolo 1, comma 99 della legge 27 dicembre 2019, n. 160,  come i finanziamenti alle fonti fossili, in SAF favorevoli, legge proprio istituita dal MASE, dove si legge: “è assolutamente impellente avviare la transizione ecologica ed è necessario farlo adesso. Perché questo significa incentivare comportamenti virtuosi dentro il mercato e, quindi, realizzare investimenti rendendo le nostre imprese competitive e all’avanguardia, preparandole alle sfide di un futuro che, sostanzialmente, è già arrivato e bussa alle porte dell’economia tradizionale.” ( https://www.mase.gov.it/pagina/consultazione-line-sad-relazione-introduttiva ).

Osservazione di ordine giuridico e ambientale:

 

Le principali omissioni del PNACC sono tre.

 

La prima omissione del PNACC: mancata valutazione della migliore mitigazione per conformità normativa e vantaggi economici

 

La prima omissione del PNACC riguarda la mancata valutazione di quale sia la migliore mitigazione delle emissioni nazionali ai fini della garanzia di effettività e durata delle misure di adattamento in esso pianificate, in termini di conformità legale con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e di costi economici ed energetici.

Il PNACC, infatti, pur parlando di diverse opzioni di mitigazione climatica e prendendo atto altresì che la mitigazione definita “aggressiva” sia la migliore per il miglior adattamento a tutela del territorio italiano e quindi della vita delle persone, nulla dice, chiarisce, spiega e dimostra sulla quantificazione della riduzione delle emissioni al 55% per il 2030 come sufficiente e sicura nel realizzare quell’obiettivo di tutela.

La letteratura scientifica manifesta molti dubbi sull’efficacia di tale quantità di mitigazione.

I principali dubbi sono tre:

1.

Il primo riguarda l’adeguatezza della mitigazione del 55% per il 2030 ai fini di un efficace e duraturo adattamento nei territori UE.

Secondo lo studio intitolato Responsibility of major emitters for country-levelwarming and extreme hot years, dedicato all’esame la responsabilità dei cinque maggiori emettitori (Cina,Stati Uniti, UE27, India e Russia), la UE, e con essal’Italia, persegue obiettivi di riduzione delle emissioni fino al 2030 (ovvero la quota del 55% indicata nel PNACC) che, se replicati da altri paesi, risulterebbero comunque inadeguati a contribuire effettivamente al contenimento dell’aumento della temperatura media globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, quindi consequenzialmente fallimentari per gli adattamenti parametrati a quella mitigazione insufficiente.

2.

Il secondo investe il tema della interdipendenza fra mitigazione climatica e costi – economici ed energetici – delle pianificazioni di adattamento.

Un altro studio, tra l’altro promosso anche da ricercatori del CMCC (Increased energy use for adaptation significantly impacts mitigation pathways), fa presente che qualsiasi adattamento richiede comunque un enorme dispendio di energia, con connesso aumento di costi di investimento nelle infrastrutture e costi energetici più elevati, per cui il calcolo della mitigazione ai fini dell’adattamento deve necessariamente tener conto di questo onere energetico aggiuntivo, per evitare di risultare astratto e inadeguato alla realtà del prossimo futuro.

3.

Il terzo investe la conformità delle misure di mitigazione e adattamento ai principi generali del diritto ambientale internazionale.

Lo studio intitolato National ‘fair shares’ in reducing greenhouse gas emissions within the principled framework of international environmental law, osserva che sia la UE che l’Italia non hanno elaborato le proprie quote di mitigazione in base al criterio della c.d. “equity climatica” (su cui cfr., nella dottrina italiana, I. Bruno, L’equity climatica come dovere costituzionale di solidarietà). Questo significa che mitigazione e adattamento climatici sono perseguiti dallo Stato italiano in violazione dei principi generali del diritto ambientale internazionale, nonostante gli stessi principi siano evocati, ma non spiegati nel loro utilizzo, del testo del PNACC.

Nel PNACC non risulta alcun tipo di analisi e valutazione alla luce delle acquisizioni della citata letteratura scientifica.

 

La seconda omissione del PNACC: assenza dell’ “equity climatica”

 

Proprio l’ultimo studio citato consente di verificare se il PNACC sia stato elaborato nell’effettivo rispetto del criterio della c.d. “equity climatica” e le sue conseguenze sull’art. 2051 Cod. civ.

In sintesi, com’è noto, l’ “equity climatica” è la regola tecnica di quantificazione della quota di mitigazione climatica di uno Stato in funzione delle sue responsabilità storiche, nell’aumento di concentrazione dei gas serra in atmosfera, rispetto agli altri Stati. Poiché il riscaldamento globale deriva appunto dalla concentrazione dei gas serra, quantificare il contributo storico di ciascuno Stato a quella concentrazione, al fine di calcolare la mitigazione climatica propria, serve a liberare definitivamente lo Stato delle proprie responsabilità su danni futuri, all’interno e all’esterno del proprio territorio.

Di conseguenza, l’ “equity climatica” identifica un fattore quantitativo di garanzia del principio “no Harm” nei rapporti fra Stati e del “neminem laedere” all’interno degli Stati.

Mitigare senza equity significa non aver fatto tutto il necessario per evitare ulteriori danni, rispetto a quelli storici imputabili a ciascun singolo Stato (sulla possibilità di questo computo, si v. Sharing the burden: quantifying climate change spillovers in the European Union under the Paris Agreement).

Dal punto di vista della responsabilità dello Stato verso i propri cittadini, mitigare e pianificare l’adattamento senza equity significa pure non poter lamentare il caso fortuito o la causa di forza maggiore in presenza di danni da cambiamento climatico, determinati comunque da quella concentrazione di gas serra alla quale l’Italia ha storicamente contribuito e dalla non si è voluta liberare quantificando appunto la propria quota corrispondente di riduzione.

In particolare, lo Stato si troverà a rispondere ai sensi dell’art. 2051 Cod. civ., in presenza di aumento di eventi meteorologici estremi. Com’è noto, l’art. 2051 descrive un meccanismo di responsabilità oggettiva anche pubblica, che la giurisprudenza italiana ha letto in funzione della tutela del danneggiato nei confronti anche della natura e dei suoi processi degenerativi, indipendentemente se antropogenici o meno. Il fulcro è stato offerto dalla definizione del “caso fortuito” (indicato dall’art. 2051 Cod. civ. quale unica causa esimente della responsabilità) nei danni prodotti da fenomeni meteorologici e climatici estremi. Solo il “caso fortuito”, infatti, delimita l’esimente «idonea a interrompere il nesso causale tra fatto e evento» di cui risponde l’ente titolare del potere di controllo del territorio, a nulla rilevando le motivazioni e i profili soggettivi del titolare della condotta, del tutto «eccentrici» rispetto ai fatti da accertare. Di conseguenza, l’accertamento del “fortuito” richiede rigorosi e accreditati riscontri scientifici e tecnici, in grado di confermare i «caratteri dell’eccezionalità e della imprevedibilità» dell’evento meteorologico (sono tutte formule utilizzate dalla Corte di cassazione); riscontri imparziali e terzi, rispetto all’Ente custode, e da questi non contestati, espressivi altresì, per usare una formula che si legge in Corte cass. n. 4588/2022, di «tempi di ritorno molto elevati … cioè suscettibili di ripetersi dopo intervalli misurabili non in anni ma in molti decenni: accertamento, questo, che prescinde dalla considerazione isolata del singolo episodio e deve invece inquadrarlo in una rilevazione statistica di lungo periodo, sola idonea ad oggettivizzarne le caratteristiche».

Ora, come accennato, il “SYR 2023” dell’IPCC consegna i “tempi di ritorno” e le “rilevazioni statistiche di lungo periodo” sull’incremento costante, crescente e accelerato degli eventi meteorologici estremi a causa del riscaldamento globale e, soprattutto, del superamento della soglia di sicurezza della temperatura media di +1,5°C rispetto ai livelli preindustriali (soglia già indicata nell’Accordo di Parigi sul clima, del 2015, e assunta come prioritaria sia dal c.d. “Glasgow Climate Pact” del 2021 che dal Regolamento UE n. 2021/1119).

Come sarà possibile predicare la “imprevedibilità” degli eventi meteorologici estremi nella notorietà della degenerazione del sistema climatico, se l’Italia non avrà fatto ricorso alla quantificazione dell’ “equity”?

Come sarà possibile utilizzare l’esimente del “caso fortuito”, nel caso in cui l’obiettivo di temperatura media a +1,5°C, ormai notoriamente prossimo alla luce proprio del “SYR 2023”, dovesse fallire?

Lo Stato ha il dovere di rispondere a queste domande se intende effettivamente tutelare il proprio territorio e i suoi abitanti dentro la soglia di 1,5°C.

Lo Stato ha altresì il dovere di spiegare perché evoca l’equità intergenerazionale ma non fornisca alcun criterio di calcolo della propria responsabilità storica nell’aumento di concentrazione di gas serra, da cui liberarsi attraverso l’ “equity climatica”.

Purtroppo, il PNACC su tutto questo tace.

È dunque doverosa e necessaria una integrazione per conteggiare l’ “equity climatica” e liberare lo Stato italiano dalla propria responsabilità per i futuri danni derivanti dal cambiamento climatico dallo stesso Stato prodotto.

 

La terza omissione del PNACC: il GAP temporale come fattore moltiplicativo dei disastri climatici

 

Il PNACC, pertanto, è privo di un’analisi integrata del rischio di disastri climatici e di catastrofe, in termini di tipping points sia geo-fisici che bio-fisici, attivati dallo sforamento della temperatura di 1,5°C (sulle diverse metodologie perseguibili, cfr. il cit. Climate Endgame: Exploring catastrophic climate change scenarios, nonché Disaster Risk Reduction and Climate Change Adaptation: An Interdisciplinary Approach).

Del resto, la prospettiva del PNACC risulta pure atemporale, ossia priva di considerazione del fattore tempo come elemento determinante della dinamica del sistema climatico nelle sue destabilizzazione produttive di effetti negativi e danni cui adattarsi.

Il fattore tempo è l’elemento costitutivo dell’emergenza climatica in quanto costituisce la variabile determinante della produzione di tutti i tipping point delle sfere del sistema climatico (inclusa la biosfera e quindi la qualità della vita umana).

Com’è noto, il punto di riferimento nella letteratura scientifica è dato dalla c.d. “equazione di Lenton et al.” appunto sull’emergenza climatica (cfr. Climate tipping points-too risky to betagainst).

Tale formula è l’unica che identifica la posta in gioco alla quale parametrare tutte le decisioni di mitigazione e conseguente adattamento, nei seguenti termini:

E = R(p x D)x U(τ/T).

L’emergenza climatica (E) è data dal rischio (R), a sua volta dettato dalla probabilità (p) del verificarsi di danni (D) di ribaltamento irreversibile dell’intero sistema climatico (appunto i tipping point), moltiplicata l’urgenza temporale (U), determinata dal rapporto fra il tempo deciso dai responsabili delle attività pericolose (τ) e il “tempo restante” (T) identificato scientificamente per porre fine concretamente all’emergenza stessa.

L’importanza di questa formula è stata riconosciuta persino dalla Banca Internazionale dei Regolamenti (The green swan: central banking and financialstability in the age of climate change), che l’ha sintetizzata con l’espressione della “tragedia dell’orizzonte” (ossia il poco tempo a disposizione per scongiurare il ribaltamento del sistema climatico planetario con i tipping point). La “tragedia dell’orizzonte” è richiamata ancor più recentemente anche dal Report di McKinsey Sustainability Solving the net-zero equation: Nine requirements for a more orderlytransition, del 27 ottobre 2021, al fine di risolvere la c.d. “equazione dello zero netto”, facendo presente che si deve agire ora per evitare un’incessante accumulazione e aggravamento dei rischi geo- e bio-fisici in futuro. Del resto, per talimotivi, il recente c.d. “Glasgow Climate Pact” parla espressamente di “scienza e urgenza” e di “decennio critico”, riconoscendo «the importance of the best available science for effective climate action and policymaking» e sottolineando «the urgency of enhancing ambition and action in relation to mitigation, adaptation and finance in this critical decade to address gaps between current efforts and pathways in pursuit of the ultimate objective of the Convention and its long-term global goal» (sottolineaturenostre).Infine, l’IPCCnelsuosestoRapporto di valutazione 2021-2022 (AR6) ha confermato la ineluttabilità di questo decennio critico parlando espressamente di  tempo cruciale disponibile per decidere con efficacia e così concludendo: «a meno che non ci siano riduzioni immediate, rapide e su larga scala delle emissioni di gas serra, limitare il riscaldamento a circa 1,5°C o anche 2°C risulterà irraggiungibile». (corsivi nostri).

Il fattore tempo, dunque, è diventato una questione vitale di:

riduzioni immediate di emissioni di gas serra;

riduzioni rapide di emissioni di gas serra;

riduzioni su larga scala delle emissioni di gas serra;

La “immediatezza” e “rapidità” di queste riduzioni investono la finestra temporale attuale: 2023-2040.

La “larga scala” investe invece le attività e la loro collocazione spaziale.

Lo si desume dal quadro di proiezione dei cinque scenari, rappresentati dall’AR6 dell’IPCC.

Questo nuovo quadro impone due evidenze scientifiche:

– l’interesse pubblico prevalente a conoscere la pericolosità, anche solo potenziale, delle emissioni (comprese quelle negative) non riguarda più un determinato tempo e un limitato spazio;

– esso riguarda la pericolosità, anche solo potenziale, nel tempo cruciale del 2021-2040 e nella larga scala spaziale in ragione delle conseguenze sulla produzione dei tipping point.

Giova ricordare che questa ineluttabilità temporale è stata ufficializzata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso all’Università di Nairobi come rappresentante dello Stato italiano (cfr. Cambiamento climatico, Mattarella: “Non c’è secondo tempo, intervenire ora”).

Pertanto, lo Stato italiano riconosce, per bocca del Capo dello Stato rappresentante dell’unità nazionale, che “non c’è un secondo tempo” per mitigare ai fini dell’adattamento. Il che significa che, ai fini di un effettivo e duratura adattamento, si deve mitigare non solo nel rispetto dell’ “equity climatica”, ma dentro la finestra temporale del “decennio critico”.

In assenza di queste due condizioni, l’adattamento è fallimentare sul piano ecosistemico, esistenziale per la qualità della vita dei cittadini, economico sul fronte dei costi, dei rientri degli investimenti e del carico energetico (come risultante dalla letteratura scientifica supra citata).

 

Alla luce dell’equazione dell’emergenza climatica (determinata appunto dalla variabile del “tempo restante” per evitare i tipping point) e del ricorso all’ “equity climatica” per liberare lo Stato italiano dalle proprie responsabilità sui danni futuri da riscaldamento globale, si può estrapolare l’equazione dell’adattamento climatico dipendente appunto dall’emergenza in corso:

A = R(p x D)x T(e/E)x U(τ/T)

L’efficacia dell’adattamento (A) dipende dal rischio (identificato dal fattore R dell’equazione dell’emergenza climatica) incrementatodall’aumento del riscaldamento globale, storicamente prodotto anche dallo Stato italiano, a sua volta dipendente dal rapporto tra emissioni ridotte permitigazione nazionale dello Stato (e) ed emissioni concentrate per responsabilità storica (E), nella considerazione dell’urgenza (U) del “tempo restante” dell’emergenza climatica per evitare i tipping point geo-fisici e bio-fisici.

Questa formula, conseguente allo studio di Lenton et al. sull’emergenza climatica, non è altro che la traduzione dell’art. 3 n. 3 dell’UNFCCC, ossia la precauzione climatica necessaria e evitare ulteriori danni imputabili allo Stato in violazione del “no Harm” internazionale e del “neminem laedere” nazionale.

Purtroppo, il PNACC è del tutto carente di qualsiasi analisi temporale connessa all’emergenza climatica produttiva dei tipping point, ai fini della garanzia di effettività e durata del Piano stesso.

Questo GAP temporale rende il PNACC generico, vago e non verificabile nella sua concreta tenuta dentro lo scenario “bad-to-worst” dell’emergenza climatica.

 

Conclusione

 

Se il PNACC non colma le tre omissioni descritte, ricorrendo alla migliore letteratura scientifica citata (da cui desumere ulteriori fonti di analisi e valutazione) non potrà garantire l’effettivo adattamento del territorio italiano alle inedite dinamiche disastrose e catastrofali che ci attendono, non esimendo lo Stato dalle proprie responsabilità di violazione del principio del “neminem laederesoprattutto rispetto alla possibilità di imputare al “caso fortuito, come richiesto dall’art. 2051 Cod. civ., i crescenti fenomeni estremi che colpiranno sempre più frequentemente e pesantemente l’Italia.