Nel novembre 2019, con il lancio della sua nuova politica energetica la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha gettato le basi per divenire la “banca per il clima” dell’Unione europea. La decisione di chiudere il rubinetto dei prestiti al settore estrattivo a partire dal 2021 ha generato un notevole dibattito nel settore finanziario e tra le banche di sviluppo pubbliche, finite sotto la pressione delle proteste dei giovani attivisti dei Fridays for Future, che chiedevono loro di azzerare i prestiti a un settore, quello delle fossili, che contribuisce in larga parte alla crisi climatica.

Se da un lato va dato atto ai banchieri di Lussemburgo dell’importanza di questa decisione, dall’altro la banca è ancora ben lontana dall’agognato impatto zero. Ce lo spiega bene il nuovo rapporto pubblicato da Counter Balance, dal titolo “The EU Climate Bank: Greenwashing or banking revolution?” (scaricabile in inglese qui: http://www.counter-balance.org/too-soon-to-call-eib-eu-climate-bank/ ). Secondo la rete di organizzazioni, di cui fa parte anche Re:Common, sono numerosi gli ambiti di investimento da cui la banca dovrebbe uscire per allineare le proprie operazioni agli impegni presi con l’Accordo di Parigi.

Prima di tutto, dovrebbe affrontare le preoccupanti lacune contenute nella policy sull’energia di cui sopra, che consente ancora di finanziare progetti nel settore del gas sulla base di vaghe promesse di una futura riduzione delle emissioni che dovrebbero rendere queste stesse opere più “green”. Poi c’è il problema dei “Progetti di interesse comune” della Commissione europea: la 4a lista dei progetti prioritari, approvata nel 2019, contiene ben 32 grandi infrastrutture per il trasporto, estrazione, stoccaggio e trattamento del gas che la BEI potrebbe finanziare. Infine le soglie di performance richieste ai clienti della banca non sarebbero per niente stringenti, aggiungendo una ulteriore finestra attraverso cui nuovi progetti fossili potrebbero beneficiare dei soldi della banca.

Solo qualche giorno fa il vice presidente della banca, Andrew McDowell, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters che “investire in nuove infrastrutture nel settore fossile, come terminali LNG, è sempre di più una decisione economicamente scorretta”. Eppure lo scorso giugno la BEI ha garantito ben 150 milioni di euro per la costruzione di un terminale LNG a Cipro, un progetto che favorirà l’espansione dell’estrazione di gas in acque profonde nel Mediterraneo orientale. Alla faccia delle considerazioni economiche, della politica energetica e della compatibilità climatica!

Secondo Counter Balance, il problema della sostenibilità climatica dei finanziamenti erogati va ben oltre il settore energetico: il rapporto segnala ad esempio l’impatto enorme su ambiente e clima di un modello di organizzazione dei trasporti incentrato sull’espansione del traffico aereo e sul commercio a lunga distanza, che la BEI continua a sostenere. Fra il 2016 e il 2019, la banca avrebbe finanziato l’espansione di aeroporti per 4 miliardi di euro; 10,5 miliardi di euro sono statti destinati alla costruzione di nuove strade e autostrade e 2,83 miliardi al settore marittimo, incluso per navi alimentate a gas. In tutto, 28,7 miliardi di euro del budget della Bei sarebbero andati a operazioni ad alte emissioni nel settore dei trasporti e dell’energia.

Quindi quale sarebbe la ricetta da seguire per divenire davvero la banca per il clima di cui l’Ue possa vantarsi? Per iniziare, la BEI dovrebbe smarcarsi dai falsi miti della transizione green promossa dalle grandi corporations. Primo fra tutti, quello del “gas verde” o “rinnovabile”, che di fatto non esiste (e forse non esisterà mai). Come non esiste l’“aviazione verde”, ma per ora ci sono solo tante promesse delle multinazionali sulle riduzioni di emissioni future di uno dei settori più pericolosi per il clima. In entrambi i casi, il rischio che risorse pubbliche continuino a sostenere settori così inquinanti sulla base di impegni sulla carta che potrebbero materializzarsi solo in parte (o per niente) è davvero troppo alto. C’è poi il mito della “finanza verde”, che riduce le proprie emissioni tramite meccanismi di offsetting della biodiversità, rischiando di alimentare l’accaparramento di terre, la deforestazione, le violazioni dei diritti umani delle comunità coinvolte. Anche questo è un mito da decostruire, non solo per investimenti in grandi infrastrutture (verdi!) ma anche per investimenti in mega impianti fotovoltaici o per lo sfruttamento dell’energia eolica. “Rinnovabili” certo, ma insostenibili.

Per trasformarsi nella Banca per il clima dell’UE, la BEI dovrebbe rivedere radicalmente la lettura del modello di sviluppo che sostiene. Serve un processo lungo e complesso, che richiederebbe alla banca di svincolarsi dalle pressioni del settore estrattivo e dell’industria pesante, ma anche da quello del settore finanziario, tra i grandi promotori dei mega-corridoi infrastrutturali orientati a favorire il transito sempre più rapido (e estrattivista) di merci su scala globale. Un vero e proprio piano di sviluppo di infrastrutture nei cinque continenti che se realizzato, diventerà la spina dorsale del sistema economico per i prossimi cinquanta e più anni, e che non può essere compatibile con la tutela del clima e la necessaria riduzione di emissioni su scala globale. Chissà se i banchieri di Lussemburgo saranno tanto ambiziosi da voler creare una “vera” banca per il clima, o se anche loro sperano che pochi ritocchi bastino a consegnare al mondo un immagine “green”, continuando però con il business as usual.

Fonte: https://www.recommon.org/il-greenwashing-della-banca-europea-per-gli-investimenti/